25.6.12

La fine di un’illusione durata troppi anni


Che cos’era accaduto? Dov’era finita la spensierata, felice «America 1928» che il candidato alla Casa Bianca Herbert Hoover prometteva di rendere ancora più felice?
Un buon anno, il 1928. «Siamo ormai vicini alla vittoria sulla povertà», andava dicendo il candidato repubblicano nei suoi discorsi elettorali, ed era esattamente ciò che pensava anche ogni buon cittadino USA. «La prosperità, o meglio la ricchezza, è dietro l’angolo di ogni strada», diceva anche Herbert Hoover e il suo sembrava un ottimismo fin troppo cauto. Non occorreva, infatti, girare l’angolo della strada: le immagini della ricchezza erano molto più a portata di mano.


Ugo Pettenghi
L'America felice prima del crollo economico. Il presidente Herbert Hoover proclamava: «La prosperità è dietro l'angolo di ogni strada» e l'ottimismo presidenziale sembrava confermato dalle notizie confortanti che giornalmente la telescrivente portava negli uffici degli agenti di cambio di tutto il Paese.

Uno spettacolo inebriante: venticinque milioni di automobili, fabbriche di radio e di frigoriferi incapaci di soddisfare la marea delle richieste, quartieri residenziali che crescevano smisuratamente attorno alle città, grattacieli sempre più fitti e più alti. I giornali traboccavano di statistiche esaltanti e di notizie splendide: il cibo americano era migliore e più abbondante che in ogni altra parte del mondo; l’acquisto di azioni della Compagnia per il dissalamento dell’acqua di mare prometteva di essere più vantaggioso del possesso di un pozzo petrolifero nel Texas; disoccupazione e scioperi erano calati a livelli trascurabili: negli ultimi tre anni gli iscritti ai sindacati erano diminuiti di un milione; gli investimenti di denaro all’estero erano passati dai 2 miliardi e mezzo del 1922 a oltre 15 miliardi; continuando il ritmo favorevole dell’economia, entro i prossimi dodici mesi si sarebbero avuti in America diecimila nuovi milionari.
Industriali e banchieri godevano di prestigio smisurato. Grazie alla loro intraprendenza la ricchezza fioriva in ogni parte del Paese e di questa ricchezza la Borsa di New York era il simbolo più fedele: lo Stock Exchange più che un mercato finanziario, era ormai un «campo dei miracoli» fertilissimo di dollari.
Come funzionasse il meccanismo la gente non sapeva bene: sapeva però che bastava acquistare qualche azione, qualche pezzo di carta del valore di un dollaro, per vedere quel dollaro moltiplicarsi come per prodigio.
Le notizie di Borsa trasmesse ogni pomeriggio dalla radio di New York sembravano bollettini trionfali della guerra alla povertà: «Oggi le Radio Corporation of America sono salite di 20 dollari, le U.S. Steel di 18…».


Con il passare delle settimane di quel meraviglioso 1928 la schiera dei candidati alla ricchezza s’ingigantiva: nei salotti, il posto dei poeti e degli artisti era stato conquistato dagli esperti di Borsa e le conversazioni vertevano su temi ricchi di fascino: l’emissione di nuove azioni Westinghouse, l’ultimo rialzo dei titoli Wright Aereo, le promettenti prospettive delle Montgomery Ward.
Il più noto economista del momento, il professor Charles Dice scriveva sui giornali: «Guidati da questi potenti cavalieri dell’industria, ai quali si sono uniti molti operatori professionisti che hanno avuto l’intuizione del progresso, il mercato azionario ha cominciato la marcia in avanti come le falangi di Ciro, parasanga su parasanga, giorno per giorno…».
Furono consultate le enciclopedie e si apprese che la parasanga, un’unità di misura degli antichi persiani, corrispondeva a una quindicina di metri. La prospettiva di un mercato capace di fare ogni giorno un balzo in avanti di quindici metri fu giudicata oltremodo incoraggiante e nel giro di poche sedute la Borsa di New York fu invasa da oltre quattromila nuovi speculatori.
Il professor Dice non era un isolato cantore della prosperità. A metà estate il presidente della General Motors, John Raskob, scriveva per le lettrici del “Ladies Home Journal”: «Ciascuno può, diventare ricco perché la fortuna è alla portata di ciascuno. Appena 15 dollari investiti ogni mese in Borsa, grazie all’accumulazione dei dividendi; possono produrre dopo vent’anni un capitale di 80 mila dollari».
In breve tutta l’America, da Boston a New York, si convertì all’eccitante gioco della speculazione borsistica. In tempi di proibizione delle bevande alcoliche e di divieto delle scommesse alle corse, la Borsa divenne la sola legale dispensatrice dell’ebbrezza e della fortuna.

Saltare sulla giostra della ricchezza era semplice: bastava entrare nell’ufficio di un agente di cambio. Ce n’erano ormai 75 mila negli Stati Uniti. Uno dei più frequentati era a Manhattan, all’angolo fra Madison Avenue e la 63esima Street-Est: un ingresso scintillante di cristalli, un lungo bancone disseminato di telefoni, due crepitanti telescriventi collegate con la Borsa, quindici impiegati con la visiera di celluloide verde. Qui i commessi di negozi a 50 dollari la settimana potevano provare emozioni da astuto finanziere. Ogni aspirante miliardario venuto ad acquistare azioni doveva versare all’agente di cambio soltanto un anticipo pari al 10 per cento del loro ammontare. L’agente di cambio, grazie ai prestiti di una banca, copriva il restante 90 per cento e conservava i titoli in cassaforte. A questo punto il compratore delle azioni doveva soltanto aspettare che i titoli salissero: quando la loro quotazione era aumentata di dieci o venti volte poteva venderle, rimborsare all’agente di cambio la somma prestata «a copertura» e intascare la differenza fra il prezzo iniziale delle azioni e quello dell’ultima quotazione. Così, senza neppure mettere piede in Borsa, ogni americano poteva coglierne i frutti dorati.
L’afflusso di migliaia di nuovi acquirenti prese a gonfiare le quotazioni delle azioni in misura tale che ben presto il loro prezzo non ebbe più alcun rapporto con il capitale reale delle industrie che esse rappresentavano. Nel pieno dell’estate, la fame di azioni esplosa dissennatamente fra casalinghe, barbieri e tassisti, intimamente persuasi di essere predestinati al successo economico, assunse, proporzioni epidemiche. I nuovi clienti degli agenti di cambio, per ottenere un pacchetto di azioni della Compagnia per la fabbricazione del sapone con olio di banano, erano disposti a sacrificare fiduciosi i risparmi di un’intera esistenza.

Fu il momento magico delle holding e degli investment trust. Le holding erano gigantesche società finanziarie: alcune di esse controllavano le compagnie dell’elettricità, del gas e dell’acqua di interi Stati, altre possedevano catene di cinema e di teatri, altre ancora avevano reti di negozi, di grandi magazzini, di alberghi. Quasi tutte erano largamente propense alla truccatura dei bilanci e agli aumenti fittizi di capitale attraverso l’emissione di nuove azioni.
«Una società finanziaria», spiegava molto seriamente l’umorista Will Roger «consiste in questo: voi potete passare a un complice la merce rubata mentre un poliziotto vi sta perquisendo.» Le grandi società finanziarie, aggirando le leggi (molto tolleranti) che avrebbero dovuto disciplinare la loro attività, cominciarono dunque a far piovere sul mercato uno sfarfallio colossale di nuove azioni che furono subito disputatissime.