23.6.12

Da Wall Street all’Europa: Hitler approfitta del panico


Le onde del terremoto che stavano devastando l’intera economia americana arrivarono ben presto all’Europa e soltanto allora il vecchio continente si rese conto di quanto ormai dipendesse dall’America.
Sino a pochi giorni prima del «grande crollo», gli Stati Uniti, o meglio i capitalisti privati degli Stati Uniti, prestavano denaro alla Germania, la Germania in gran parte lo versava alla Francia e all’Inghilterra per le riparazioni di guerra e, a loro volta, Francia e Inghilterra rispedivano quello stesso denaro negli Stati Uniti per pagare i debiti contratti con l’alleato americano durante il conflitto. Quando, in pieno disastro, i finanzieri americani cominciarono a chiedere la restituzione dei prestiti a breve scadenza concessi alla Germania, il panico si diffuse rapidissimo in tutte le banche tedesche e in tutte le industrie tenute in piedi da quella parte del denaro americano che veniva sottratto al pagamento delle riparazioni di guerra.
La crisi sarebbe esplosa anche in Francia e soprattutto in Gran Bretagna, ma per la Germania fu anche peggio. Nel giro di pochi mesi, si riversarono nelle strade delle sue città sei milioni di disoccupati: un deposito di dinamite che si accumulava vistosamente sotto il piedistallo fragilissimo del governo democratico della repubblica di Weimar.
Il 13 luglio 1931 fallì una delle principali banche del Paese, la Darmstädter und Nationalbank. In preda al panico il governo commise un catastrofico errore psicologico: ordinò la chiusura temporanea di tutte le banche e questo provvedimento precipitò il Paese nello sgomento. Bloccati i meccanismi dell’economia, fu il caos.

Le lunghe code per il pane, i cortei di disoccupati, le fabbriche chiuse, la disperazione del popolo piombato nella miseria parevano allietare un solo tedesco, il capo di un partito di estremisti di destra che additava alla Germania un confuso programma di rivincita. Adolf Hitler, il capo di quel partito, scriveva in quei giorni: «Mai in tutta la mia vita mi sono sentito così ben disposto e interiormente contento come ora. La dura realtà ha aperto gli occhi dei tedeschi». Spiegare ai tedeschi le «vere cause» della crisi economica sarebbe diventato il suo cavallo di battaglia. La spiegazione del disastro data da Hitler nei raduni di partito e nei comizi era semplice e suggestiva: s’imperniava sulla leggenda antisemita secondo cui Wall Street era tenebrosamente dominata da finanzieri ebrei. Così come una congiura ebraica aveva trascinato alla sconfitta la Germania imperiale, oggi un’altra congiura di finanzieri ebrei aveva condannato la Germania alla fame. Il ritiro dei capitali americani era appunto la prova schiacciante dell’infame manovra.
A questo tipo dì diagnosi si adattava una cura precisa, e il grande taumaturgo, cui milioni di tedeschi cominciavano a guardare speranzosi, aveva già scritto la ricetta: il riarmo della Germania. Il riarmo come valvola di sfogo per la disoccupazione (sei milioni di uomini senza lavoro), ma soprattutto come primo passo verso la rivincita contro l’eterna congiura ebraica antitedesca.
A una larghissima fetta di cittadini la diagnosi di Hitler parve giusta e buona la cura che egli proponeva. Nel luglio 1932 l’elezione al Reichstag assegnò ai nazisti 230 seggi, confermando così la loro asserzione di essere ormai il più forte partito della Germania.
Con la grande crisi il dopoguerra era finito. Cominciava l’anteguerra.