26.6.12

Come cominciò in presenza di Churchill la settimana nera


Quel giovedì mattina New York si era svegliata nel grigiore della prima nebbia d’autunno. Un velo appena, ma bastava a dare un’aria svogliata al traffico nelle strade. Il solito formicolio di pedoni sui marciapiedi, il solito strombettare di auto (sette Ford modello T su dieci), ma tutto a un ritmo più quieto, appunto da giornata di nebbia.
Pochi minuti prima delle dieci, a Broadway, fra le tante auto scoppiettanti, si fece largo, maestosamente silenziosa, una Rolls Royce scintillante di cromature. All’altezza della chiesa della Trinità curvò piano a sinistra e infilò una strada stretta che si snodava lungo i resti di un muro costruito nel XVII secolo per proteggere Manhattan dalle cariche, dei bisonti. L’auto fu costretta a fermarsi dopo meno di duecento metri: una massa compatta di folla vociante si addensava sino in fondo alla strada, raggrumandosi ancor più fittamente davanti alla facciata severa dello Stock Exchange, il palazzo della Borsa di New York.

L’autista della Rolls Royce fece strillare il clacson due, tre volte, poi si girò desolato verso il passeggero che gli sedeva dietro, un uomo massiccio, vestito di nero, con una grande cravatta di seta azzurra e un enorme sigaro stretto fra le labbra. Un avvenimento storico come l’inizio della «grande crisi» stava per avere un testimone, che nella sua lunga vita, avrebbe avuto molte altre occasioni d’inciampare nella storia.
L’uomo con il sigaro si chiamava Winston Churchill, aveva 55 anni e sino a pochi mesi prima era stato cancelliere dello Scacchiere del regno di Gran Bretagna, responsabile della politica economica tutt’altro che brillante del governo conservatore di Stanley Baldwin.

La grande crisi degli anni trenta - Ugo Pettenghi
Winston Churchill ex cancelliere dello Scacchiere del regno di Gran Bretagna) in viaggio di vacanza con la moglie a New York. Fu durante la visita di Churchill a Wall Street che si ebbero i primi segni dell'imminente collasso del mercato azionario. Lo statista britanni­co, confuso tra la falla, as­sistette al dilagare del panico senza rendersi ben conto di quanto accadeva.

Churchill, da una decina di giorni, stava facendo con la moglie un viaggio di vacanza negli Stati Uniti: quella mattina aveva deciso di visitare la Borsa di New York, il paradiso terrestre dove per alcuni milioni di americani stava compiendosi il miracolo della ricchezza. L’uomo col sigaro, di quel miracolo aveva una conoscenza diretta e molto amara: la corsa all’acquisto di azioni alla Borsa di New York era stata una delle cause della fuga di oro dall’Inghilterra agli Stati Uniti e l’emorragia monetaria si era rivelata fatale al già debole governo di cui aveva fatto parte. Fra poco, lo avesse animato un desiderio di acida rivalsa, avrebbe avuto abbondantemente di che soddisfarlo: l’oro fuggito dalla Gran Bretagna stava per polverizzarsi fra le rovine di quello che aveva finito di essere un paradiso terrestre.
Sceso dall’auto, Winston Churchill, per raggiungere l’ingresso della Borsa, dovette sgomitare tra la folla. Almeno cinquemila persone. Circa il doppio di quanti, da alcuni mesi, si raccoglievano ogni giorno attorno allo Stock Exchange a bearsi dei balzi in alto delle quotazioni dei titoli azionari.

Quel giorno il rumoreggiare della folla non aveva niente di festoso: un tam-tam misterioso aveva propagato la voce che i prezzi delle azioni, schizzati in cielo con la velocità dei razzi dei fuochi artificiali, erano arrivati al culmine della parabola e ora, appunto come fuochi d’artificio, stavano scoppiando con sinistri crepitii.
Winston Churchill, sventolando un lasciapassare firmato da Andrew Mellon, il segretario al Tesoro americano, riuscì finalmente a entrare nella hall della Borsa. Fra le pareti rilucenti di marmo e di fregi dorati era esploso il panico. Davanti a ciascuno dei diciotto sportelli di vendita, agenti di cambio e clienti s’accalcavano urlando. Il grande tabellone elettrico con i prezzi delle azioni in cifre luminose lampeggiava impazzito: la frana delle quotazioni pareva incontenibile.
Le azioni della Westinghouse erano scese di 25 punti rispetto al giorno prima, le Blue Ridge di 14, le General Electric di 20. I telefoni sulle scrivanie degli agenti di cambio squillavano frenetici. Da ogni apparecchio che veniva alzato, la voce angosciata di un cliente: «Venda! Venda tutte le mie azioni!»
Un banchiere che aveva riconosciuto Churchill tra la folla si fece largo a spintoni e lo raggiunse. Era congestionato in volto. «È il disastro» gemette allargando le braccia. L’ex cancelliere dello Scacchiere non era un genio della finanza: in ogni fatto economico inconsueto era portato a vedere il risultato di un complotto socialista o una manovra dei «tenebrosi dominatori di Wall Street», i finanzieri.

Poiché, con ogni evidenza, i socialisti questa volta non c’entravano, Churchill dovette pensare a un oscuro maneggio degli stregoni dell’economia americana: «Forse c’è qualcuno – disse – che gioca al ribasso. Spargono la paura per poi rastrellare le azioni a poco prezzo. Questa storia non durerà a lungo».
I fatti immediatamente successivi parvero dargli ragione. Due ore dopo, quando Winston Churchill aveva appena lasciato il palazzo della Borsa, il tabellone con le cifre luminose si fermò e si fermò anche la convulsa compravendita delle azioni. Un altro misterioso tam-tam aveva portato la notizia che al 23 di Wall Street, negli uffici della banca Morgan erano riuniti cinque fra i più potenti finanzieri d’America: Thomas W. Lamont, dirigente della Morgan, Charles Mitchell, presidente della National City Bank, Albert Wiggin e William C. Potter, della Chase National Bank, e Sewrd Presser, della Bankers Trust Company.

I maghi dell'economia

Da sinistra, nella foto sopra, Thomas W. Lamont, l'eminenza grigia della banca Morgan, il finanziere Whitney, il banchiere Stanley e il banchiere Junius Morgan. Furono tra i «maghi dell'economia» che tentarono troppo tardi di arginare la frana delle quotazioni

La folla in Borsa tratteneva speranzosa il respiro. I cinque grandi sacerdoti dell’economia della nazione si erano certamente radunati per celebrare un magico rito che avrebbe infallibilmente salvato il mercato dalla rovina.
Un’ora più tardi (era l’una) Richard Whitney, alto funzionario della banca Morgan vicepresidente della Borsa e, per l’occasione, «messaggero speciale» dei cinque finanzieri, uscì dall’edificio numero 23 di Wall Street e varcò la soglia dello Stock Exchange. La folla raccolta nella hall gli fece largo in silenzio: arrivava l’angelo delle salvezza. Whitney si fermò davanti a uno degli sportelli di vendita e domandò ad alta voce quale fosse la quotazione di uno dei titoli più disastrati, l’U.S. Steel. Era in vendita a 193 dollari. Whitney girò lentamente lo sguardo sui volti tesi che gli erano tutt’attorno, poi annunciò con solennità: «Compro 25 mila azioni U.S. Steel a 205 dollari!» Tutto ciò che i cinque grandi sacerdoti potevano fare era questo? Troppo poco, e soprattutto troppo tardi.
Intanto, una nuova ondata di folla stava rumoreggiando davanti alla Borsa. Dai quartieri del Bronx, di Newark, di Brooklyn, strombettando istericamente sulle loro Ford T acquistate a rate, migliaia di piccoli impiegati e di bottegai che si erano illusi di poter diventare miliardari investendo in azioni tutti i risparmi e indebitandosi per comprarne altre ancora, si erano precipitati a Wall Street. Ora assediavano la Borsa con la speranza di riuscire a vendere in tempo quei pezzi di carta che così rapidamente perdevano valore e che presto forse avrebbero toccato lo zero.
Il bluff psicologico dei cinque finanzieri era fallito. Adesso gli ordini di vendita cominciavano ad arrivare da ogni parte del Paese. Due ore dopo, quando la campana d’argento della Borsa annunciò la chiusura degli sportelli, erano state vendute 12.894.650 azioni.

La grande crisi degli anni trenta - ugo pettenghi
Venerdì 25 ottobre 1929. Poliziotti a cavallo controllano la folla che dalle prime ore del mattino si sta raccogliendo in Wall Street. Si teme che i risparmiatori esasperati possano dare l'assalto alla Borsa; invece, dopo il panico del giorno prima, la gente ha ricominciato a sperare nel miracolo.


All’uscita del palazzo della banca Morgan, Thomas W. Lamont fu circondato dai giornalisti. Era pallidissimo, ma sorrideva in modo rincuorante: «C’è stata un po’ di vendita di necessità in Borsa, ma si è trattato soltanto di un assestamento tecnico e le cose sono suscettibili di miglioramento rapido». Con questa ottimistica, sebbene poco decifrabile diagnosi, ruppe l’assedio, raggiungendo in fretta la Cadillac con autista gallonato che lo attendeva lì vicino.
Erano le 15.30 e davanti alla Borsa la folla era aumentata ancora. Dieci, undicimila persone che si passavano l’un l’altra le prime notizie sulle conseguenze del crollo delle azioni: «Nella Quinta Strada un banchiere si è buttato dalla finestra…», e poi: «Dalle acque dell’Hudson hanno ripescato i cadaveri di tre risparmiatori rovinati...», e ancora: «Un agente di cambio si è tagliato la gola…».

Ben presto il numero dei suicidi di cui correva voce tra la folla salì a undici. Ma non era vero, o meglio, non era vero ancora: i piccoli banchieri ridotti sul lastrico, i risparmiatori che avevano perduto tutto e gli agenti di cambio rimasti senza un dollaro erano ancora troppo sbigottiti per riuscire a trovare una via d’uscita, fosse pure il suicidio. Lo sbalordimento non era ancora diventato disperazione, ma la gente davanti alla Borsa era pronta a giurare sulla realtà di quei suicidi e quando sul tetto dello Stock Exchange comparve la figura di un uomo, si levò un urlo generale di raccapriccio. Il presunto candidato al suicidio, spaventato, fece un balzo e per poco non piombò nel vuoto davvero. Era un muratore incaricato di sostituire una lastra di vetro di un lucernario e di ciò che stava accadendo cinquanta metri sotto di lui non sapeva assolutamente nulla. Finì ugualmente nell’elenco dei suicidi di cui ormai si parlava in tutta la città: dodici morti, tredici, venti...

A mezzanotte un cliente si presentò al Waldorf-Astoria, l’albergo più elegante di New York, e chiese una camera raccomandando che fosse a uno degli ultimi piani. Non voleva essere disturbato dal rumore del traffico della strada, ma non lo disse e il portiere sentì il bisogno d’informarsi: «È per dormire o per saltare dalla finestra?».
Finiva la prima giornata della settimana nera di Wall Street.