23.6.12

Che cosa si nasconde dietro il mito della “lira forte”


In Italia è il 26 ottobre 1929, festosa vigilia del settimo anniversario della marcia su Roma. I treni viaggiano veloci e in orario, ma dal Paese dei grattacieli, di Greta Garbo e di Charlot, le notizie arrivano in ritardo e di seconda mano. A Wall Street giovedì 24 ottobre c’è stato il finimondo in Borsa, però gli italiani che non appartengono all’olimpo della finanza, dell’industria o della politica, hanno dovuto aspettare altre 48 ore prima di leggere sui giornali poche righe su «un certo allarme diffusosi fra gli speculatori della Borsa di New York».
La notizia viene di rimbalzo: l’«Agenzia Stefani» l’ha ripresa dal giornale londinese «Morning Post» e i quotidiani le dedicano una distratta attenzione. Ben altri sono gli avvenimenti che meritano rilievo: per esempio che domani, 27 ottobre, in tutto il Paese saranno inaugurate 9.697 opere pubbliche per un importo di 3 miliardi e 740 milioni di lire (oltre 300 miliardi in lire del 1971 [circa 25 milioni di euro del 2012, N.d.c.] ).
La prima pagina del «Popolo d’Italia», il quotidiano fondato da Mussolini, basta appena a elencarle tutte. Un’altra fetta di spazio è occupata dal testo del telegramma di felicitazioni del duce per il fidanzamento del principe di Piemonte con la principessa Maria José del Belgio. E poi c’è la notizia dei preparativi per l’inaugurazione in Campidoglio dell’Accademia d’Italia, versione nostrana e fascista della prestigiosa Académie Française: il 28 ottobre, anniversario della rivoluzione, trenta accademici in uniforme ricamata, feluca e spadino entreranno nella «galleria degli immortali» (tremila lire di stipendio mensile). L’elenco comprende Pietro Mascagni, Umberto Giordano, l’architetto Marcello Piacentini. Non c’è il nome di Benedetto Croce, il filosofo inviso al regime, in compenso c’è quello di un giovane fisico, Enrico Fermi, ancora poco conosciuto, ma che potrebbe raccogliere un giorno l’eredità di Guglielmo Marconi che della Reale Accademia d’Italia sarà acclamato presidente.

Nei giorni successivi, le notizie sulla crisi in Borsa a New York sono sacrificate ai trionfalistici bilanci dell’anno settimo dell’era fascista (i bilanci si fanno ormai da un 28 ottobre all’altro) e i giornali sono occupati per intero dalle rievocazioni dei successi della politica di Benito Mussolini: il concordato con il Vaticano firmato in febbraio; le elezioni plebiscitarie a scheda unica del 24 marzo (8 milioni 506.576 «sì» alla domanda «Approvate voi la lista dei deputati designati dal Gran Consiglio Nazionale del Fascismo?» e appena 136.198 i «no»); la vittoriosa «battaglia del grano» condotta durante l’estate; la strenua difesa della lira saldamente arroccata sulla prestigiosa «quota 90», ossia al rapporto di 90 lire per ogni sterlina (nel 1926, per acquistare una sterlina, di lire ce ne volevano 153,68),
Eppure, proprio la celebrata «quota 90» della lira e le trascurate notizie da Wall Street, sono in quei giorni fonti di preoccupazione vivissima per i pochi italiani che conoscono la realtà nascosta dietro gli incensi trionfali. La «lira forte» è la bandiera del regime, ma i vantaggi della brusca rivalutazione hanno avuto una pesante contropartita: il rialzo eccessivo della moneta italiana ha fatto diminuire le esportazioni, perché le nostre merci sono diventate troppo care, e molte fabbriche hanno dovuto ridurre la produzione. Per sostenere la lira, inoltre, si è fatto ricorso sempre più sistematicamente alla diminuzione dei salari: fra il 1927 e il 1928 le paghe degli operai sono scese dal 10 al 20 per cento secondo le categorie.
I treni in orario sono un sipario roseo che nasconde l’amara realtà del progressivo abbassamento del tenore dì vita della maggioranza del popolo italiano e la brusca paralisi del processo di sviluppo cui l’economia italiana si era faticosamente avviata negli anni precedenti.

I finanzieri, i grandi industriali, gli uomini politici meno ciechi sanno bene che cosa significa la crisi di Wall Street: è la fine della speranza che il capitale americano possa dare vitalità all’esangue economia del Paese. I banchieri privati americani, che a partire dal 1925 avevano cominciato a prestare milioni di dollari a società, a enti e a comuni italiani ora hanno bisogno di quel denaro e ne pretendono la restituzione: le scadenze non saranno prorogate. Illudersi che possa trattarsi di un breve viaggio di andata e ritorno, è da folli: i dollari che partono non ricompariranno più.
Il governo fascista, ufficialmente, nega che la crisi americana possa avere conseguenze dannose sulla nostra economia: ammettere questa possibilità significherebbe riconoscere la posizione subalterna del capitalismo italiano rispetto all’alta finanza degli Stati Uniti. Il 6 novembre, sul «Popolo d’Italia», Arnaldo Mussolini, fratello del duce, scrive: «L’Europa può approfittare di questa sosta e meditare una sistemazione più aderente ai propri interessi e non sotto la pressione del capitale nordamericano».
L’invito alla meditazione è accompagnato da un’ulteriore riduzione dei salari: si spera che questa ciambella di salvataggio possa permettere agli imprenditori italiani di sfuggire alle prime ondate della recessione economica in arrivo da oltre Atlantico. Il resto, il miracolo, lo avrebbero fatto, scrive l’economista Giorgio Mortara «le parche abitudini e la resistenza alle privazioni che sono caratteristiche salutari del nostro popolo».
Gli inni e le fanfare del settimo anniversario della marcia su Roma nel luglio del 1930 sembrano ormai lontanissimi: rispetto allo stesso mese del 1929 ci sono 140 mila disoccupati in più e fra la popolazione serpeggia il malumore. Ai giornali è fatto divieto di dare notizia degli scioperi che scoppiano qua e là ed è sequestrata nelle edicole una rivista di economia stampata a Ginevra dove si legge che le paghe degli operai italiani «sono oggi le più basse d’Europa».
Mussolini ricorre a un incredibile bluff. Il 13 agosto invia ai prefetti l’ordine di rilasciare il maggior numero possibile di passaporti. Per decine di migliaia di disoccupati è una luce che si accende: si accalcano a schiere negli uffici delle questure inzeppandoli di domande di espatrio. I passaporti sono concessi con facilità, ma al momento delle consegne, cortesi funzionari con il distintivo fascista all’occhiello fanno più o meno questo discorsetto: «Ma dove volete andare? In Francia, in Germania, in Austria è assai peggio di qui: i disoccupati si contano a milioni». Rinunciano tutti a partire e la loro delusione farà dire a Mussolini: «Ora sono perfettamente guariti e sanno che in questo momento non esistono Paesi facili in nessuna parte del mondo». Un mese più tardi, al consiglio delle corporazioni, il duce tocca i tasti dell’ottimismo lirico: «Stiamo lasciandoci alle spalle la notte e camminiamo verso l’aurora». Ma alla fine dell’anno, quando si tirano le somme, ci si accorge che è ancora buio fitto.

Rispetto al 1929 la disoccupazione industriale è aumentata del 70 per cento e quella agricola del 50 per cento. Bisogna ridurre ancora i costi di produzione e dare così un po’ d’ossigeno alle industrie: si torna alla solita amara medicina della riduzione dei salari. Lo Stato decide di dare l’esempio e Mussolini annuncia in Senato la decurtazione degli stipendi dei dipendenti statali (720 milioni di lire di risparmio) e di quelli dei dipendenti degli enti parastatali (un risparmio di altri 700 milioni di lire). «Fortunatamente – dice – il popolo italiano non è ancora abituato a mangiare molte volte al giorno e avendo un livello di vita modesto sente di meno la sofferenza.»
I dirigenti della confederazione dell’agricoltura e quelli della confederazione dell’industria sono della sua medesima opinione: il costo della mano d’opera salariata è quello su cui più facilmente è possibile ottenere risparmi e non è il caso di farsi troppi scrupoli visto che il popolo italiano «fortunatamente» ha sviluppate attitudini alle ristrettezze.
La confederazione dell’agricoltura decide di operare una riduzione media dei salari agricoli del 17,5 per cento, con una punta massima del 25 per cento. «Calcolando su un media annua di 210 giornate lavorative e una riduzione media di 2 lire per lavoratore, si ottiene – spiega un comunicato – una riduzione globale annua di un miliardo e 218 milioni di lire». Dal canto loro, gli industriali annunciano una riduzione dell’8-10 per cento dei salari di due milioni e mezzo di lavoratori, il che rappresenta un risparmio di un buon miliardo di lire.

L’1 gennaio 1931, in una speciale trasmissione radiofonica, Mussolini legge faticosamente in inglese un «messaggio al popolo americano». Vuol essere la sfida dell’Italia fascista, risanata dal salasso dei salari, alla plutocrazia americana incapace di rimediare alla prostrazione degli Stati Uniti: «So che in America si è seguito con interesse il recente movimento economico italiano. Esso, cominciato con la riduzione degli stipendi per equilibrare il bilancio dello Stato, è ormai vittorioso perché i prezzi al dettaglio sono diminuiti. Lo Stato corporativo ha funzionato in pieno perché tutte le categorie, industriali, operai, agricoltori, contadini e commercianti hanno compreso la necessità e l’utilità del movimento».
È un bollettino di vittoria destinato esclusivamente «all’esportazione»: i centomila abbonati all’EIAR (la RAI dell’epoca) non ascolteranno mai la traduzione in italiano del messaggio di Mussolini. L’omissione è ragionevolmente prudente: è vero che i salari sono diminuiti, ma non è affatto vero che i prezzi siano calati in proporzione. Lo Stato corporativo poi ha funzionato nel senso che ha trasferito quasi esclusivamente sui lavoratori il peso della crisi e ancora per due anni, sino al 1933, non riuscirà a frenare né l’aumento della disoccupazione né la paralisi progressiva dell’economia.
Poi la ripresa si avrà, ma sarà una ripresa gonfia di nubi fosche. Comincerà in sordina, con un graduale moltiplicarsi delle ordinazioni statali alle aziende metallurgiche-meccaniche ed esploderà poi con un’ondata di riassunzioni che ridurrà a dimensioni modeste la disoccupazione nel settore industriale.
«La crisi è vinta» scriveranno allora i giornali, e nel clima di euforia generale gli italiani non si accorgeranno che la bacchetta magica sfoderata dal regime sarà quella delle «commesse belliche», il più pericoloso degli stimolanti economici. Così, dai giornali, la parola «crisi» scomparirà del tutto e gli italiani finiranno quasi per scordarsela; saranno troppo presi da altri avvenimenti: il problema del «posto al sole», la conquista dell’impero, le sanzioni, il patto con la Germania.
Ugo Pettenghi