27.6.12

La Grande Crisi in formato elettronico

Dopo la citazione dell'opera di mio padre Ugo nell'intervento di Roberto Saviano alla Repubblica delle Idee ho ricevuto numerose richieste di informazioni a proposito della Grande Crisi Degli Anni Trenta.
Ritengo i suoi scritti quanto mai attuali e metto a disposizione la versione originale in formato elettronico. È il testo che venne allegato alla Domenica del Corriere negli anni Settanta, senza modifiche. Ho solo attualizzato alcune cifre con il corrispettivo in Euro del 2012 per semplificare ai lettori il confronto. Ringrazio Roberto Saviano per la lettura pubblica del primo capitolo e per le sue parole. 


Ecco La Grande Crisi Degli Anni Trenta nei formati accessibili dai principali lettori di libri elettronici e personal computer.


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La Grande Crisi degli Anni Trenta
Edizione originale




Introduzione


La grande crisi del `29

Sembrava una riuscita imitazione del paradiso terrestre concentrata in uno spiazzo di mezzo chilometro quadrato fra i grattacieli di New York. Aveva nome Wall Street e negli anni strampalati del charleston vi crescevano abbondanti e alla portata di tutti i miracolosi alberi della ricchezza i cui frutti, per universale convinzione, procuravano la più invidiabile delle felicità.

Il terremoto che distrusse quel paradiso terrestre creato dagli uomini cominciò un nebbioso giovedì mattina: era il 24 ottobre 1929 e le prime scosse squarciarono il giardino incantato con paurose voragini. Quel giorno fu detto il giovedì nero.

Poi, nei giorni che seguirono, vennero altre scosse e si spalancarono altre voragini. Ci furono così un venerdì nero, un sabato nero, un lunedì nero, un martedì e un mercoledì neri. Fu una lunga settimana uniformemente nerissima, eppure la fine del paradiso terrestre «made in USA» non fu ancora il peggio.

Le onde del terremoto stavano cominciando un inarrestabile giro del mondo e presto sarebbe stata la «grande crisi», un flagello che avrebbe afflitto per anni l’umanità intera seminandovi miseria, disperazione e rancori.

Dopo il terremoto, una disastrosa paralisi per l’economia di tutti i Paesi e, alla fine, la scoperta tacita, ma generale, del più folle degli antidoti: una corsa collettiva e frenetica al riarmo. Lavoro per milioni di disoccupati, ossigeno per le industrie malate e cannoni per alimentare la tentazione di una seconda guerra mondiale.
Ugo Pettenghi

26.6.12

Come cominciò in presenza di Churchill la settimana nera


Quel giovedì mattina New York si era svegliata nel grigiore della prima nebbia d’autunno. Un velo appena, ma bastava a dare un’aria svogliata al traffico nelle strade. Il solito formicolio di pedoni sui marciapiedi, il solito strombettare di auto (sette Ford modello T su dieci), ma tutto a un ritmo più quieto, appunto da giornata di nebbia.
Pochi minuti prima delle dieci, a Broadway, fra le tante auto scoppiettanti, si fece largo, maestosamente silenziosa, una Rolls Royce scintillante di cromature. All’altezza della chiesa della Trinità curvò piano a sinistra e infilò una strada stretta che si snodava lungo i resti di un muro costruito nel XVII secolo per proteggere Manhattan dalle cariche, dei bisonti. L’auto fu costretta a fermarsi dopo meno di duecento metri: una massa compatta di folla vociante si addensava sino in fondo alla strada, raggrumandosi ancor più fittamente davanti alla facciata severa dello Stock Exchange, il palazzo della Borsa di New York.

L’autista della Rolls Royce fece strillare il clacson due, tre volte, poi si girò desolato verso il passeggero che gli sedeva dietro, un uomo massiccio, vestito di nero, con una grande cravatta di seta azzurra e un enorme sigaro stretto fra le labbra. Un avvenimento storico come l’inizio della «grande crisi» stava per avere un testimone, che nella sua lunga vita, avrebbe avuto molte altre occasioni d’inciampare nella storia.
L’uomo con il sigaro si chiamava Winston Churchill, aveva 55 anni e sino a pochi mesi prima era stato cancelliere dello Scacchiere del regno di Gran Bretagna, responsabile della politica economica tutt’altro che brillante del governo conservatore di Stanley Baldwin.

La grande crisi degli anni trenta - Ugo Pettenghi
Winston Churchill ex cancelliere dello Scacchiere del regno di Gran Bretagna) in viaggio di vacanza con la moglie a New York. Fu durante la visita di Churchill a Wall Street che si ebbero i primi segni dell'imminente collasso del mercato azionario. Lo statista britanni­co, confuso tra la falla, as­sistette al dilagare del panico senza rendersi ben conto di quanto accadeva.

Churchill, da una decina di giorni, stava facendo con la moglie un viaggio di vacanza negli Stati Uniti: quella mattina aveva deciso di visitare la Borsa di New York, il paradiso terrestre dove per alcuni milioni di americani stava compiendosi il miracolo della ricchezza. L’uomo col sigaro, di quel miracolo aveva una conoscenza diretta e molto amara: la corsa all’acquisto di azioni alla Borsa di New York era stata una delle cause della fuga di oro dall’Inghilterra agli Stati Uniti e l’emorragia monetaria si era rivelata fatale al già debole governo di cui aveva fatto parte. Fra poco, lo avesse animato un desiderio di acida rivalsa, avrebbe avuto abbondantemente di che soddisfarlo: l’oro fuggito dalla Gran Bretagna stava per polverizzarsi fra le rovine di quello che aveva finito di essere un paradiso terrestre.
Sceso dall’auto, Winston Churchill, per raggiungere l’ingresso della Borsa, dovette sgomitare tra la folla. Almeno cinquemila persone. Circa il doppio di quanti, da alcuni mesi, si raccoglievano ogni giorno attorno allo Stock Exchange a bearsi dei balzi in alto delle quotazioni dei titoli azionari.

Quel giorno il rumoreggiare della folla non aveva niente di festoso: un tam-tam misterioso aveva propagato la voce che i prezzi delle azioni, schizzati in cielo con la velocità dei razzi dei fuochi artificiali, erano arrivati al culmine della parabola e ora, appunto come fuochi d’artificio, stavano scoppiando con sinistri crepitii.
Winston Churchill, sventolando un lasciapassare firmato da Andrew Mellon, il segretario al Tesoro americano, riuscì finalmente a entrare nella hall della Borsa. Fra le pareti rilucenti di marmo e di fregi dorati era esploso il panico. Davanti a ciascuno dei diciotto sportelli di vendita, agenti di cambio e clienti s’accalcavano urlando. Il grande tabellone elettrico con i prezzi delle azioni in cifre luminose lampeggiava impazzito: la frana delle quotazioni pareva incontenibile.
Le azioni della Westinghouse erano scese di 25 punti rispetto al giorno prima, le Blue Ridge di 14, le General Electric di 20. I telefoni sulle scrivanie degli agenti di cambio squillavano frenetici. Da ogni apparecchio che veniva alzato, la voce angosciata di un cliente: «Venda! Venda tutte le mie azioni!»
Un banchiere che aveva riconosciuto Churchill tra la folla si fece largo a spintoni e lo raggiunse. Era congestionato in volto. «È il disastro» gemette allargando le braccia. L’ex cancelliere dello Scacchiere non era un genio della finanza: in ogni fatto economico inconsueto era portato a vedere il risultato di un complotto socialista o una manovra dei «tenebrosi dominatori di Wall Street», i finanzieri.

Poiché, con ogni evidenza, i socialisti questa volta non c’entravano, Churchill dovette pensare a un oscuro maneggio degli stregoni dell’economia americana: «Forse c’è qualcuno – disse – che gioca al ribasso. Spargono la paura per poi rastrellare le azioni a poco prezzo. Questa storia non durerà a lungo».
I fatti immediatamente successivi parvero dargli ragione. Due ore dopo, quando Winston Churchill aveva appena lasciato il palazzo della Borsa, il tabellone con le cifre luminose si fermò e si fermò anche la convulsa compravendita delle azioni. Un altro misterioso tam-tam aveva portato la notizia che al 23 di Wall Street, negli uffici della banca Morgan erano riuniti cinque fra i più potenti finanzieri d’America: Thomas W. Lamont, dirigente della Morgan, Charles Mitchell, presidente della National City Bank, Albert Wiggin e William C. Potter, della Chase National Bank, e Sewrd Presser, della Bankers Trust Company.

I maghi dell'economia

Da sinistra, nella foto sopra, Thomas W. Lamont, l'eminenza grigia della banca Morgan, il finanziere Whitney, il banchiere Stanley e il banchiere Junius Morgan. Furono tra i «maghi dell'economia» che tentarono troppo tardi di arginare la frana delle quotazioni

La folla in Borsa tratteneva speranzosa il respiro. I cinque grandi sacerdoti dell’economia della nazione si erano certamente radunati per celebrare un magico rito che avrebbe infallibilmente salvato il mercato dalla rovina.
Un’ora più tardi (era l’una) Richard Whitney, alto funzionario della banca Morgan vicepresidente della Borsa e, per l’occasione, «messaggero speciale» dei cinque finanzieri, uscì dall’edificio numero 23 di Wall Street e varcò la soglia dello Stock Exchange. La folla raccolta nella hall gli fece largo in silenzio: arrivava l’angelo delle salvezza. Whitney si fermò davanti a uno degli sportelli di vendita e domandò ad alta voce quale fosse la quotazione di uno dei titoli più disastrati, l’U.S. Steel. Era in vendita a 193 dollari. Whitney girò lentamente lo sguardo sui volti tesi che gli erano tutt’attorno, poi annunciò con solennità: «Compro 25 mila azioni U.S. Steel a 205 dollari!» Tutto ciò che i cinque grandi sacerdoti potevano fare era questo? Troppo poco, e soprattutto troppo tardi.
Intanto, una nuova ondata di folla stava rumoreggiando davanti alla Borsa. Dai quartieri del Bronx, di Newark, di Brooklyn, strombettando istericamente sulle loro Ford T acquistate a rate, migliaia di piccoli impiegati e di bottegai che si erano illusi di poter diventare miliardari investendo in azioni tutti i risparmi e indebitandosi per comprarne altre ancora, si erano precipitati a Wall Street. Ora assediavano la Borsa con la speranza di riuscire a vendere in tempo quei pezzi di carta che così rapidamente perdevano valore e che presto forse avrebbero toccato lo zero.
Il bluff psicologico dei cinque finanzieri era fallito. Adesso gli ordini di vendita cominciavano ad arrivare da ogni parte del Paese. Due ore dopo, quando la campana d’argento della Borsa annunciò la chiusura degli sportelli, erano state vendute 12.894.650 azioni.

La grande crisi degli anni trenta - ugo pettenghi
Venerdì 25 ottobre 1929. Poliziotti a cavallo controllano la folla che dalle prime ore del mattino si sta raccogliendo in Wall Street. Si teme che i risparmiatori esasperati possano dare l'assalto alla Borsa; invece, dopo il panico del giorno prima, la gente ha ricominciato a sperare nel miracolo.


All’uscita del palazzo della banca Morgan, Thomas W. Lamont fu circondato dai giornalisti. Era pallidissimo, ma sorrideva in modo rincuorante: «C’è stata un po’ di vendita di necessità in Borsa, ma si è trattato soltanto di un assestamento tecnico e le cose sono suscettibili di miglioramento rapido». Con questa ottimistica, sebbene poco decifrabile diagnosi, ruppe l’assedio, raggiungendo in fretta la Cadillac con autista gallonato che lo attendeva lì vicino.
Erano le 15.30 e davanti alla Borsa la folla era aumentata ancora. Dieci, undicimila persone che si passavano l’un l’altra le prime notizie sulle conseguenze del crollo delle azioni: «Nella Quinta Strada un banchiere si è buttato dalla finestra…», e poi: «Dalle acque dell’Hudson hanno ripescato i cadaveri di tre risparmiatori rovinati...», e ancora: «Un agente di cambio si è tagliato la gola…».

Ben presto il numero dei suicidi di cui correva voce tra la folla salì a undici. Ma non era vero, o meglio, non era vero ancora: i piccoli banchieri ridotti sul lastrico, i risparmiatori che avevano perduto tutto e gli agenti di cambio rimasti senza un dollaro erano ancora troppo sbigottiti per riuscire a trovare una via d’uscita, fosse pure il suicidio. Lo sbalordimento non era ancora diventato disperazione, ma la gente davanti alla Borsa era pronta a giurare sulla realtà di quei suicidi e quando sul tetto dello Stock Exchange comparve la figura di un uomo, si levò un urlo generale di raccapriccio. Il presunto candidato al suicidio, spaventato, fece un balzo e per poco non piombò nel vuoto davvero. Era un muratore incaricato di sostituire una lastra di vetro di un lucernario e di ciò che stava accadendo cinquanta metri sotto di lui non sapeva assolutamente nulla. Finì ugualmente nell’elenco dei suicidi di cui ormai si parlava in tutta la città: dodici morti, tredici, venti...

A mezzanotte un cliente si presentò al Waldorf-Astoria, l’albergo più elegante di New York, e chiese una camera raccomandando che fosse a uno degli ultimi piani. Non voleva essere disturbato dal rumore del traffico della strada, ma non lo disse e il portiere sentì il bisogno d’informarsi: «È per dormire o per saltare dalla finestra?».
Finiva la prima giornata della settimana nera di Wall Street.

25.6.12

“Vendere a ogni costo”: si scatena un’ondata di suicidi


Venerdì 25 e sabato 26 ottobre furono giornate di follia. Dalla Casa Bianca era stata diffusa una dichiarazione che aveva acceso le ultime speranze: «L’economia del Paese – aveva detto il presidente Hoover – posa su basi solidissime. Soltanto l’isterismo è responsabile del panico: il mercato ritroverà presto la calma».
Rapidamente, sotto la bandiera dell’ottimismo presidenziale, si schierarono i nomi più sonanti della finanza: «Nella situazione economica attuale non c’è nulla che giustifichi il nervosismo», proclamò alla radio Eugene Stevens, presidente della Continental Bank. «L’eliminazione di alcuni piccoli speculatori risulterà vantaggiosa per la Borsa», sentenziò Howard Hopson, capo dell’Associated Gas and Electric.
Una grande compagnia finanziaria acquistò un’intera pagina del «Wall Street Journal» per pubblicare queste poche parole: «A-T-T-E-N-T-I. Bisogna ragionare con calma. Date retta alle parole di fiducia dei più grandi banchieri d’America».
Ma l’incantesimo era rotto. Il tabellone luminoso della Borsa non riusciva più a reggere il ritmo dei ribassi delle azioni: le quotazioni che vi si leggevano erano in ritardo di due o tre ore sui nuovi prezzi. Da tutto il Paese arrivavano ondate di titoli in vendita…

Ugo Pettenghi
È il tardo pomeriggio del 25 ottobre 1929. Nell'interno del palazzo della Borsa di New York ogni illusione è caduta. Le azioni stanno precipitando e tutti continuano a vendere.

Domenica 27 ottobre, in moltissime chiese furono pronunciati sermoni che parlavano di «meritata punizione divina» per quegli americani che la bramosia di ricchezza aveva reso ciechi davanti ai valori spirituali. Chissà, forse la collera celeste si era davvero placata e domani le azioni avrebbero ricominciato a salire. Quella sera a Broadway, il teatro dove si replicava lo «Show Boat» di Kern e Rammerstein registrò il primato mensile degli incassi; la sala da ballo di Harlem dove Duke Ellington proponeva il suo «stile jungla» si riempì da scoppiare; davanti ai cinema che avevano in programma «Hallelujah» di King Vidor si formarono lunghe code. A Brooklyn, nel principale circolo italo-americano, un conferenziere fascista venuto da Roma spiegò all’uditorio che la prosperità americana sarebbe stata presto uguagliata e magari superata da quella dell’Italia fascista che, proprio in quelle ore, si stava preparando a festeggiare il settimo anniversario della rivoluzione voluta da Benito Mussolini.

Il lunedì, 28 ottobre, le residue speranze svanirono. Alle 11, in Borsa, le azioni della U.S. Steel erano scese di altri 17 dollari, le General Electric di 47 e mezzo, le Westinghouse di 34. Tutti gli agenti erano tempestati di telefonate perentorie: «Venda! Venda a qualsiasi cifra». A mezzogiorno erano state vendute, a prezzi via via decrescenti, tre milioni di azioni.
I cinque «grandi sacerdoti» di Wall Street tornarono a riunirsi nella banca Morgan e vi rimasero sino alle 18.30. Fu qualcosa di assai simile a un rito funebre e quando finì Thomas W. Lamont andò a leggere ai giornalisti il de profundis dell’epoca d’oro del capitalismo americano: «Mantenere un ragionevole livello dei corsi in Borsa non è nelle nostre possibilità. Noi non abbiamo che un dovere, quello di far sì che il mercato sia ordinato. Se il disastro è inevitabile, si eviti almeno il caos». I giganti di Wall Street non avevano saputo escogitare altro: agli americani rovinati dal ciclone borsistico non offrivano altra via che la rotta in buon ordine.
E invece, il martedì mattina, la rotta fu disordinata. Nel salone dello Stock Exchange le offerte di vendita parevano invocazioni di mendicanti. «Azioni delle macchine per cucire White. Prezzo di listino del 23 ottobre, 48 dollari, prezzo del 28 ottobre, 11 dollari e mezzo. Vendo duemila azioni: fate un’offerta», gridava un agente sporgendosi dal suo sportello. Finalmente un fattorino della Borsa disse forte: «Mezzo dollaro l’una». Voleva essere una battuta di spirito, ma non ci furono altre offerte e il fattorino si trovò proprietario per poche banconote di una grossa fetta di una delle più solide imprese industriali degli Stati Uniti. Così come durante il boom quasi tutte le azioni erano salite incredibilmente molto al di sopra del loro reale valore, ora, nella corsa nevrotica alle vendite, anche i titoli azionari di industrie sanissime colavano a picco assurdamente.

A mezzogiorno, John Holloway, un anziano ex commerciante del Bronx che da mesi passava le sue giornate allo Stock Exchange, vide sul tabellone luminoso che le azioni della Blue Ridge da 24 dollari erano scese a 3. Aveva investito in quel titolo tutti i suoi risparmi. Prima di afflosciarsi senza vita restò per qualche secondo con gli occhi fissi sull’inesorabile danza delle cifre luminose.
Mezz’ora più tardi, Anne Pearson, una commessa che lavorava in una gioielleria di Broadway, s’impiccava a una trave del soffitto del retrobottega. Sparpagliati sotto i suoi piedi c’erano i certificati d’acquisto di azioni per 60 mila dollari: le aveva comperate appena una settimana prima versando però al suo agente soltanto un acconto di 6 mila dollari. Ora quelle azioni valevano meno di 500 dollari.
Il rosario dei suicidi cominciava a sgranarsi davvero. Thomas Miller, presidente della Rochers Gas and Electric, scelse il gas; il banchiere John J. Riordan preferì spararsi un colpo di pistola in bocca; un commerciante che i giornali indicarono soltanto con le iniziali R. H. riempì di benzina una vasca di cemento nel giardino di casa, vi appiccò il fuoco e vi si buttò dentro: nel tentativo di strapparlo alle fiamme la moglie ebbe carbonizzate le mani.
Nel pomeriggio, dopo che la Borsa aveva chiuso registrando un ribasso medio di 40 dollari per azione, vi furono altri morti, tutti però accompagnati da certificati che attribuivano a collassi cardiaci le cause dei repentini trapassi. Suicidi mascherati con l’aiuto di compiacenti medici di famiglia? Probabile. L’improvvisa moria pareva prediligere i piccoli banchieri, gli agenti di borsa, gli speculatori della borghesia medio alta.

Nei primi giorni della settimana nera la catastrofe aveva travolto i piccoli giocatori, i bottegai, i tassisti e gli impiegati a 100 dollari la settimana che si erano illusi di aver trovato in Borsa la loro miniera d’oro: adesso, toccava agli uomini d’affari più robusti, ai banchieri di medio calibro, ai miliardari di recente fortuna.
Invulnerabili, come sempre, soltanto i grossi nomi. Attorno agli imperi dei Du Pont (chimica, petrolio e gomma), dei Ford (automobili) e dei Rockefeller (petrolio) le onde della tempesta si frangevano impotenti: erano imperi costruiti su solide ricchezze, non su montagne di titoli azionari. La crisi non pareva riguardarli.
La Casa Bianca cercò di coinvolgerli, di mobilitarli perché con il loro prestigio ridessero un po’ di fiducia al Paese ormai in preda al panico. All’appello del presidente Hoover che aveva telefonato a tutti rispose soltanto uno spettro di 90 anni, John D. Rockefeller, «L’imperatore» della Standard Oil. Nel primo pomeriggio di mercoledì 30 ottobre, il più famoso dei miliardari d’America lasciò la propria casa di campagna di Pocantico Hills, a una trentina di chilometri a nord di New York, e raggiunse in auto Wall Street, dove era stata convocata una conferenza stampa. Ai giornalisti, Rockefeller fece l’impressione di una mummia regale uscita dal sarcofago. Il viso esangue sotto una ragnatela di rughe, i capelli incredibilmente candidi, gli occhi senza luce, il vegliardo parlò lentamente, con voce da oracolo: «Niente – disse – giustifica il crollo dei valori in Borsa che ha avuto luogo nei giorni scorsi. Ci troviamo di fronte a un panico che non ha nulla di motivato. Poiché crediamo che la situazione del Paese sia salda e vigorosa e poiché abbiamo fiducia in una sollecita ripresa, mio figlio e io abbiamo deciso di acquistare forti quantità di sicure azioni...».

ugo pettenghi
A destra con il cilindro, John D. Rockfeller, il più famoso dei miliardari d'America, accogliendo un appello del presidente Hoover, si accinge a partecipare a una conferenza stampa per rassicurare l'opinione pubblica. A sinistra, Henry Ford, l'imperatore delle automobili: nonostante fosse molto amico del presidente preferì non intervenire.
Quella sera stessa, su un palcoscenico di Broadway, l’attore Eddie Cantor commentò: «Si capisce, soltanto a lui e a suo figlio è rimasto qualche dollaro in tasca».
L’evocazione del fantasma novantenne non funzionò: il Paese era ormai sprofondato nello sgomento. Prima della mezzanotte un breve comunicato della radio di New York annunciò che la Borsa, il giorno successivo, giovedì, si sarebbe aperta soltanto per poche ore nel pomeriggio e che il venerdì e il sabato sarebbe rimasta chiusa.
L’annuncio fu salutato da manifestazioni di giubilo nelle strade: tutti avevano i nervi a pezzi e la chiusura dello Stock Exchange – almeno si sperava – avrebbe riportato un po’ di calma.
Il giorno seguente, durante le tre ore di apertura della Borsa, il mercato ebbe qualche momento di ripresa, ma nessuno si illuse: il tempo dei sogni, era finito e l’America si accingeva a pagare cara l’orgia delle illusioni dei mesi addietro.

La fine di un’illusione durata troppi anni


Che cos’era accaduto? Dov’era finita la spensierata, felice «America 1928» che il candidato alla Casa Bianca Herbert Hoover prometteva di rendere ancora più felice?
Un buon anno, il 1928. «Siamo ormai vicini alla vittoria sulla povertà», andava dicendo il candidato repubblicano nei suoi discorsi elettorali, ed era esattamente ciò che pensava anche ogni buon cittadino USA. «La prosperità, o meglio la ricchezza, è dietro l’angolo di ogni strada», diceva anche Herbert Hoover e il suo sembrava un ottimismo fin troppo cauto. Non occorreva, infatti, girare l’angolo della strada: le immagini della ricchezza erano molto più a portata di mano.


Ugo Pettenghi
L'America felice prima del crollo economico. Il presidente Herbert Hoover proclamava: «La prosperità è dietro l'angolo di ogni strada» e l'ottimismo presidenziale sembrava confermato dalle notizie confortanti che giornalmente la telescrivente portava negli uffici degli agenti di cambio di tutto il Paese.

Uno spettacolo inebriante: venticinque milioni di automobili, fabbriche di radio e di frigoriferi incapaci di soddisfare la marea delle richieste, quartieri residenziali che crescevano smisuratamente attorno alle città, grattacieli sempre più fitti e più alti. I giornali traboccavano di statistiche esaltanti e di notizie splendide: il cibo americano era migliore e più abbondante che in ogni altra parte del mondo; l’acquisto di azioni della Compagnia per il dissalamento dell’acqua di mare prometteva di essere più vantaggioso del possesso di un pozzo petrolifero nel Texas; disoccupazione e scioperi erano calati a livelli trascurabili: negli ultimi tre anni gli iscritti ai sindacati erano diminuiti di un milione; gli investimenti di denaro all’estero erano passati dai 2 miliardi e mezzo del 1922 a oltre 15 miliardi; continuando il ritmo favorevole dell’economia, entro i prossimi dodici mesi si sarebbero avuti in America diecimila nuovi milionari.
Industriali e banchieri godevano di prestigio smisurato. Grazie alla loro intraprendenza la ricchezza fioriva in ogni parte del Paese e di questa ricchezza la Borsa di New York era il simbolo più fedele: lo Stock Exchange più che un mercato finanziario, era ormai un «campo dei miracoli» fertilissimo di dollari.
Come funzionasse il meccanismo la gente non sapeva bene: sapeva però che bastava acquistare qualche azione, qualche pezzo di carta del valore di un dollaro, per vedere quel dollaro moltiplicarsi come per prodigio.
Le notizie di Borsa trasmesse ogni pomeriggio dalla radio di New York sembravano bollettini trionfali della guerra alla povertà: «Oggi le Radio Corporation of America sono salite di 20 dollari, le U.S. Steel di 18…».


Con il passare delle settimane di quel meraviglioso 1928 la schiera dei candidati alla ricchezza s’ingigantiva: nei salotti, il posto dei poeti e degli artisti era stato conquistato dagli esperti di Borsa e le conversazioni vertevano su temi ricchi di fascino: l’emissione di nuove azioni Westinghouse, l’ultimo rialzo dei titoli Wright Aereo, le promettenti prospettive delle Montgomery Ward.
Il più noto economista del momento, il professor Charles Dice scriveva sui giornali: «Guidati da questi potenti cavalieri dell’industria, ai quali si sono uniti molti operatori professionisti che hanno avuto l’intuizione del progresso, il mercato azionario ha cominciato la marcia in avanti come le falangi di Ciro, parasanga su parasanga, giorno per giorno…».
Furono consultate le enciclopedie e si apprese che la parasanga, un’unità di misura degli antichi persiani, corrispondeva a una quindicina di metri. La prospettiva di un mercato capace di fare ogni giorno un balzo in avanti di quindici metri fu giudicata oltremodo incoraggiante e nel giro di poche sedute la Borsa di New York fu invasa da oltre quattromila nuovi speculatori.
Il professor Dice non era un isolato cantore della prosperità. A metà estate il presidente della General Motors, John Raskob, scriveva per le lettrici del “Ladies Home Journal”: «Ciascuno può, diventare ricco perché la fortuna è alla portata di ciascuno. Appena 15 dollari investiti ogni mese in Borsa, grazie all’accumulazione dei dividendi; possono produrre dopo vent’anni un capitale di 80 mila dollari».
In breve tutta l’America, da Boston a New York, si convertì all’eccitante gioco della speculazione borsistica. In tempi di proibizione delle bevande alcoliche e di divieto delle scommesse alle corse, la Borsa divenne la sola legale dispensatrice dell’ebbrezza e della fortuna.

Saltare sulla giostra della ricchezza era semplice: bastava entrare nell’ufficio di un agente di cambio. Ce n’erano ormai 75 mila negli Stati Uniti. Uno dei più frequentati era a Manhattan, all’angolo fra Madison Avenue e la 63esima Street-Est: un ingresso scintillante di cristalli, un lungo bancone disseminato di telefoni, due crepitanti telescriventi collegate con la Borsa, quindici impiegati con la visiera di celluloide verde. Qui i commessi di negozi a 50 dollari la settimana potevano provare emozioni da astuto finanziere. Ogni aspirante miliardario venuto ad acquistare azioni doveva versare all’agente di cambio soltanto un anticipo pari al 10 per cento del loro ammontare. L’agente di cambio, grazie ai prestiti di una banca, copriva il restante 90 per cento e conservava i titoli in cassaforte. A questo punto il compratore delle azioni doveva soltanto aspettare che i titoli salissero: quando la loro quotazione era aumentata di dieci o venti volte poteva venderle, rimborsare all’agente di cambio la somma prestata «a copertura» e intascare la differenza fra il prezzo iniziale delle azioni e quello dell’ultima quotazione. Così, senza neppure mettere piede in Borsa, ogni americano poteva coglierne i frutti dorati.
L’afflusso di migliaia di nuovi acquirenti prese a gonfiare le quotazioni delle azioni in misura tale che ben presto il loro prezzo non ebbe più alcun rapporto con il capitale reale delle industrie che esse rappresentavano. Nel pieno dell’estate, la fame di azioni esplosa dissennatamente fra casalinghe, barbieri e tassisti, intimamente persuasi di essere predestinati al successo economico, assunse, proporzioni epidemiche. I nuovi clienti degli agenti di cambio, per ottenere un pacchetto di azioni della Compagnia per la fabbricazione del sapone con olio di banano, erano disposti a sacrificare fiduciosi i risparmi di un’intera esistenza.

Fu il momento magico delle holding e degli investment trust. Le holding erano gigantesche società finanziarie: alcune di esse controllavano le compagnie dell’elettricità, del gas e dell’acqua di interi Stati, altre possedevano catene di cinema e di teatri, altre ancora avevano reti di negozi, di grandi magazzini, di alberghi. Quasi tutte erano largamente propense alla truccatura dei bilanci e agli aumenti fittizi di capitale attraverso l’emissione di nuove azioni.
«Una società finanziaria», spiegava molto seriamente l’umorista Will Roger «consiste in questo: voi potete passare a un complice la merce rubata mentre un poliziotto vi sta perquisendo.» Le grandi società finanziarie, aggirando le leggi (molto tolleranti) che avrebbero dovuto disciplinare la loro attività, cominciarono dunque a far piovere sul mercato uno sfarfallio colossale di nuove azioni che furono subito disputatissime.

24.6.12

I vertici dell'euforia, prima del 1929


Un’altra pioggia di azioni venne dagli «investment trust», ingegnose organizzazioni che emettevano titoli propri investendo poi il denaro ricavato in titoli di altre compagnie. Il fatto che gli «investment trust» vendessero molte più azioni di quelle che acquistavano, non pareva destare alcuna diffidenza. La gente comune non capiva bene il funzionamento di queste alchimie finanziarie, ma aveva una fiducia assoluta negli amministratori dei trust. Del resto, sui giornali comparivano regolarmente inserzioni rassicuranti che proclamavano: «Il nostro trust ha come consulenti i più famosi economisti del Paese: per voi, per dar valore ai vostri dollari, abbiamo mobilitato in notevole misura la trionfante intelligenza affaristica degli Stati Uniti».
Anche le azioni emesse dai trust andarono a ruba, ma non bastava ancora. Sempre nei cuore di quella folle estate, John Raskob, che dalla General Motors era passato alla direzione del comitato nazionale del partito democratico, forse per contrastare la marcia sulla Casa Bianca di Herbert Hoover (mancavano pochi mesi alle elezioni) propose un piano per dare la ricchezza anche agli americani più poveri. «Il mio piano – assicurò Raskob – ha l’approvazione di finanzieri, di economisti, di banchieri e di molti uomini non di primo piano, ma ricchi di idee.» In breve, si trattava di questo. Innanzitutto, occorreva organizzare una speciale società per l’acquisto di azioni: un tassista con 200 dollari di risparmi, per esempio, avrebbe potuto affidare i suoi soldi alla società incaricandola di acquistare titoli per 500 dollari. La differenza di 300 dollari sarebbe stata coperta da una seconda società, presso la quale tutti i titoli di tutti i clienti sarebbero stati depositati in garanzia. Il tassista, pagando il suo debito a rate di 25 dollari al mese, avrebbe potuto ritirare dopo un anno 500 dollari d’azioni che, nel frattempo, sarebbero immancabilmente cresciute di valore: mille dollari, duemila, chissà…

L’annuncio del piano Raskob fu accolto, con un’emozione pari a quella che avrebbe suscitato la notizia della scoperta dell’elisir della giovinezza eterna, ma non fermò Hoover sulla strada della Casa Bianca, e con l’elezione del nuovo presidente l’intero Paese si abbandonò a quella che negli anni successivi fu concordemente definita «una vera e propria orgia speculativa».
Si speculava forsennatamente a Wall Street; giocavano in Borsa a Chicago i gangster di Al Capone appena reduci dalla strage di San Valentino (sette uomini di una banda rivale spazzati via in un garage a colpi di pistola mitragliatrice); a Los Angeles, l’attore più fortunato dell’anno, Douglas Fairbanks senior, investiva in azioni l’intero compenso che gli era stato dato per il film «La maschera di ferro». In dicembre, le «vedove di Rodolfo Valentino», le centinaia di migliaia di donne americane che coltivavano appassionatamente la memoria dell’attore ucciso dalla peritonite due anni prima, e che per la gran parte erano diventate accanite giocatrici in Borsa, trovarono sui giornali due notizie ugualmente appassionanti: la prima diceva che Rodolfo Valentino, in realtà, era stato avvelenato da un innamorato di Pola Negri con un cocktail spruzzato di polvere di diamante e di arsenico; la seconda attribuiva alla stessa Pola Negri, l’ultima compagna del divo tanto rimpianto, l’acquisto recente di oltre un milione di dollari di azioni. La prima notizia, quella sull’assassinio del divo era falsa, la seconda era vera e Pola Negri ne avrebbe fatto le spese trovandosi, l’anno dopo, quasi completamente rovinata.
Si poteva giocare in Borsa anche a bordo dei transatlantici di lusso in navigazione fra gli Stati Uniti e l’Europa, l’Ile de France e il Leviathan. Il compositore Irving Berlin fu fortunato: durante un viaggio sull’Ile de France decise di vendere 10 mila azioni della Paramount Famous Lasthy e ne ricavò 72 dollari l’una. Nel crollo di Wall Street, quelle stesse azioni sarebbero diventate inutili pezzi di carta. Assai meno fortunati gli speculatori dell’ultima ora, i ritardatari che nei primi mesi del 1929 erano disposti a impegnarsi l’orologio per avere qualche azione della Società per l’importazione di somari dalla Spagna. Il disastro si disegnava nell’aria: il mercato azionario era ormai un pallone troppo gonfiato.
I primi allarmi non furono ascoltati. Le poche timide Cassandre, il direttore del «Commercial and Financial Chronicle» e l’esperto di Borsa del «New York Times», che osavano profetizzare un’imminente flessione del mercato, furono tacciati di disfattismo e i loro prudenti avvertimenti furono equiparati a un deliberato tentativo di sabotare lo sviluppo economico del Paese. Fu giudicata addirittura blasfema la predizione dell’economista Roger Babson secondo il quale: «Prima o poi ci sarà un crollo e sarà tremendo: gli operai resteranno senza lavoro, le fabbriche dovranno chiudere e il circolo vizioso travolgerà tutto». Le parole di Babson erano certamente un concentrato di falsità e di perfidia ai danni della legittima aspirazione alla ricchezza di tanti buoni americani: il boom, potevano vederlo tutti, appariva più florido che mai.

Ancora durante l’estate 1929 l’illusione collettiva era autorevolmente incoraggiata. Dall’università di Yale, l’economista Irving Fishser sentenziava: «I titoli azionari non sono ancora all’altezza del loro valore reale. Saliranno ulteriormente anche perché sul mercato non si sono ancora registrati i benefici del proibizionismo che ha reso l’operaio americano più sobrio e più produttivo...».
Verso la metà di settembre, alla Borsa di New York si ebbero i primi scricchiolii. In quei giorni il dirigibile tedesco «Zeppelin» stava compiendo il giro del mondo; da Parigi arrivavano i primi vestiti femminili che mortificavano le curve dei fianchi e le rotondità del seno; il romanzo di Remarque «All’Ovest niente di nuovo» diventava un bestseller, e Babe Ruth stava rivelandosi il più grande giocatore di baseball di tutti i tempi. Ma gli appassionati di aeronautica, le signore attente alla moda, i compratori di libri e i tifosi di baseball avevano altro da pensare. In una movimentata giornata di Borsa le azioni U.S. Steel erano scese da 255 dollari a 246, la Westinghouse aveva perduto 7 punti e la Tel and Tel 6. Che cosa stava accadendo? I più si rincuorarono con la rosea diagnosi emessa dalla Harvard Economic Society (un istituto universitario che era giudicato il più sensibile barometro della situazione finanziaria): «Una severa depressione – dicevano a Harvard – non rientra nel novero delle probabilità».
Qualcuno, invece, cominciò a pensare che fosse ormai venuto il momento di vendere, di saltare giù dal treno in corsa prima del disastro. Come le folli speranze che lo avevano preceduto, anche il panico doveva rivelarsi contagioso: un contagio più lento, perché le illusioni sono dure a morire, ma intanto i germi della paura si propagavano. Nelle prime due settimane di ottobre cominciò a gravare sullo Stock Exchange un malessere indecifrabile: pochi acquisti tentennanti e sempre più frequenti offerte di vendita a prezzi via via decrescenti.
Il 15 ottobre, il solito professor Fisher dichiarò ai giornalisti: «Mi aspetto di vedere presto il mercato a un livello assai più elevato di oggi». E ripeté questa sua assoluta convinzione anche il 21 ottobre, ma il suo ottimismo non riuscì a esorcizzare il fantasma della crisi che stava avvicinandosi.

Appena due giorni dopo, in tutto il Paese, migliaia e migliaia di americani arrivavano alla medesima conclusione: era veramente arrivato il momento di vendere le azioni. Lo avrebbero fatto, tutti insieme, la mattina dopo, giovedì 24 ottobre 1929.

Milioni di disoccupati mentre Roosevelt arriva alla Casa Bianca

Il grande crollo dilagò negli Stati Uniti come una pestilenza: non accatastava molti cadaveri, ma seminava ugualmente miserie e disperazione. Eppure, durante la rovinosa settimana nera e nei giorni immediatamente successivi, si fece ogni sforzo per tenere gli occhi chiusi davanti al disastro. Come per la peste manzoniana. «In principio dunque non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche parlarne.., poi, non vera peste; vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un nome...» Fu così anche per il «grande crollo»: un crollo c’era stato sì, ma non proprio, e in un certo senso... Fra i giornali si accese la gara dell’eufemismo: in Borsa si era verificato un ridimensionamento del mercato, un declino momentaneo. Quando la rovina divenne troppo vistosa per poter essere ancora negata, cominciò la corsa ai ripari. Fu condotta soprattutto a parole ed ebbe aspetti grotteschi. James J. Walker, rieletto sindaco di New York il 6 novembre con 865 mila voti contro i 368 mila dell’altro candidato, Fiorello La Guardia, mentre sui giornali comparivano i primi lunghi elenchi di imprese dichiarate fallite, convocò i distributori e i produttori di film per esortarli a fornire ai cinematografi «spettacoli in grado di risollevare il coraggio e la speranza nel cuore della popolazione». Occorreva ben più della mobilitazione di Hollywood, e infatti l’appello di Walker non ebbe altro risultato che contribuire a un decennio di film destinati a tener lontana la gente dal pensare.

Non risollevarono il coraggio e la speranza neppure gli appelli alla calma che arrivavano dalla Casa Bianca. Sotto lo shock del crollo azionario l’America scopriva con sgomento che la sua industria aveva avuto uno sviluppo caotico, che l’agricoltura era in crisi, che il miracolo della prosperità aveva sfiorato soltanto una parte della popolazione e che durante il boom la ricchezza dei ricchi era cresciuta più rapidamente di quanto fosse diminuita la povertà dei poveri. Il meccanismo della recessione funzionava ormai con l’inesorabilità di una reazione a catena: caduta delle vendite in tutti i settori commerciali, crisi delle aziende, riduzione dei salari, licenziamenti. Con l’aumento della disoccupazione, nuova contrazione delle vendite, altre aziende in crisi, altri fallimenti, e ancora disoccupati. Otto settimane dopo il giovedì nero, quattro milioni di americani avevano perduto il lavoro, 640 banche private erano fallite e alcune migliaia di piccole imprese avevano chiuso i cancelli.

A New York, dove il flagello si era abbattuto più violento, centinaia di ex milionari scopertisi in miseria vendevano mele agli angoli delle strade o si univano alla folla dei diseredati in coda davanti alle sedi dell’Esercito della Salvezza per ricevere una scodella di zuppa. C’erano lunghe code davanti alle panetterie di fortuna allestite dagli enti di beneficenza: con la rovina, gli americani erano passati dalla fame di azioni alla fame di pane. Davanti alle fabbriche chiuse i disoccupati offrivano se stessi all’asta: per pochi dollari erano pronti ad accettare condizioni assai prossime alla schiavitù. «Uomo di fatica robusto e volonteroso. È disposto a lavorare 14 ore al giorno per un dollaro», gridava un improvvisato banditore. Quasi sempre lo «schiavo bianco» restava senza compratore. Nei mesi successivi, attorno a tutte le maggiori città americane, cominciarono a sorgere sterminati sobborghi costruiti con rottami di auto, lamiere rugginose, casse di sapone e bidoni di benzina. In odio al presidente Hoover, considerato ormai uno dei responsabili della miseria, questi baraccamenti erano chiamati «hoovervilles», città di Hoover. Un’indagine federale accertò, durante il febbraio 1930, che 28 mila imprese commerciali erano in crisi e non avrebbero retto per molto. Fallirono tutte, infatti, nell’arco di dodici mesi con passivi per oltre un miliardo e mezzo di dollari. Alla propaganda comunista non mancavano solidi argomenti per mobilitare le masse. Rispondendo all’appello di William Foster, primo segretario del partito comunista americano, il 5 marzo 1930 (i disoccupati erano ormai 7 milioni) quarantamila novaiorchesi invasero i prati dell’Union Square. Era una folla di miserabili con scarpe sfondate e fogli di giornali sotto le camicie per difendersi dal freddo. Foster, inerpicatosi sul piedistallo del monumento a George Washington, arringò. quell’esercito di disperati per un’ora, poi urlò: «All’assalto del palazzo del sindaco!». Si formò un disordinato corteo che prese ad avanzare tumultuando lungo la Quinta Strada. Vi fu una prima carica della polizia a cavallo, seguita da un’altra e da un’altra ancora. Non fu necessario far ricorso alle armi da fuoco: denutriti, avviliti e sfiduciati com’erano, i dimostranti furono dispersi facilmente a bastonate. Una ventina di feriti, quattordici arresti. Sconvolto dalla notizia dei disordini il presidente Hoover decise di rivolgere quella sera stessa un appello radio alla nazione. Ai milioni di disoccupati che ancora speravano in un aiuto del governo, che invocavano un pur misero sussidio, Hoover offrì il conforto di un assurdo ottimismo: «Entro sessanta giorni, io ve lo prometto solennemente, gli Stati Uniti torneranno alla normalità». L’ingegner Herbert Hoover, il «presidente miracolo» com’era stato chiamato in tempi migliori, rifiutava ancora di prendere atto della realtà. Hoover aveva un libro prediletto che leggeva ogni giorno, «Come essere padroni di sé grazie all’autosuggestione» del dottor Cowe, e forse questo poteva spiegare la ferma fiducia che ostentava, ma i milioni di americani che lo ascoltavano non avevano la risorsa dell’autosuggestione e la promessa presidenziale non li rasserenò. Il giorno successivo alla perorazione le azioni U.S. Steel, che durante il boom erano salite a 261 dollari e che erano riuscite a superare il ciclone della crisi ancorandosi a quota 150, precipitarono a 21 dollari e un quarto.

A un tristissimo 1930 seguì un tragico 1931: fallirono altre 29 mila imprese con un passivo complessivo di 730 milioni di dollari e i disoccupati superarono gli otto milioni. Sul finire dell’anno, il presidente Hoover era politicamente agonizzante: il suo stesso partito gli voltava le spalle e una schiera non piccola di repubblicani progressisti era ormai trasmigrata nelle file del partito democratico il cui «numero uno», il governatore dello Stato di New York, Franklin Delano Roosevelt, andava predicando la necessità di attingere alle riserve federali per assistere i disoccupati e per creare nuovi posti di lavoro con una politica di vasti lavori pubblici. Sarebbe bastato un incidente per dare a Hoover il colpo di grazia. E l’incidente accadde pochi mesi dopo, il 17 luglio 1932, a ottocento metri dalla Casa Bianca, nella Pennsylvania Avenue. In questa strada, ormai da una ventina di giorni, un enorme edificio già in parte demolito era divenuto il centro di raccolta di alcune migliaia di disoccupati che avevano combattuto in Europa durante la prima guerra mondiale e che erano venuti a Washington per esigere il pagamento della polizza di assicurazione che era stata loro concessa al momento del congedo. Si erano accampati nel gigantesco stabile con mogli e figli, decisi a non sloggiare senza prima aver ottenuto i pochi dollari che spettavano loro. Al presidente Hoover era parsa un’intollerabile sfida e la sera del 16 luglio dalla Casa Bianca era partito un ordine preciso. Durante la notte, quattro squadroni di cavalleria e una colonna di fanteria dell’esercito degli Stati Uniti si schierarono nella Pennsylvania Avenue e cinsero silenziosamente d’assedio l’edificio occupato dagli ex combattenti. All’alba l’accerchiamento era compiuto. Comandava l’operazione un ufficiale di 42 anni, un maggiore al quale gli esperti pronosticavano un brillante avvenire. Si chiamava Dwight Eisenhower.

Alle 10.30, mentre dalle finestre dell’edificio assediato volavano insulti e pietre, il maggiore Eisenhower lanciò con un megafono il suo ultimatum: «Sgomberate il palazzo o saremo costretti a usare la forza». Gli rispose un colpo di pistola sparato in aria da una delle finestre. Eisenhower, che intanto si era portato in mezzo alla strada, si girò indietro a guardare in direzione di un portone sotto il quale, da una decina di minuti, era «in osservazione» addirittura il capo di stato maggiore dell’esercito, il generale Douglas Mac Arthur. Un cenno della mano dell’incollerito Mac Arthur e il maggiore Eisenhower diede l’ordine. Una gragnuola di bombe lacrimogene raggiunse crepitando le finestre dell’edificio occupato. La ribellione degli ex combattenti poteva dirsi conclusa. Costretti ad abbandonare l’edificio e a uscire lacrimando e tossendo nella strada, furono dispersi da una blanda carica di uno dei quattro squadroni di cavalleria. «Se l’esercito degli Stati Uniti deve fare la guerra a cittadini inermi, allora l’America non è più l’America» scrissero l’indomani i giornali e per il presidente Hoover fu la fine. Obbedendo agli ordini di un presidente repubblicano, Dwight Eisenhower, futuro presidente repubblicano, aveva inconsapevolmente contribuito a spianare la strada a vent’anni di amministrazione del Paese da parte del partito democratico. La campagna elettorale, per Franklin Delano Roosevelt fu un giro trionfale, per Herbert Hoover un calvario penoso. Il 4 novembre 1932, l’uomo del «New Deal», del nuovo programma destinato a chiudere l’epoca del capitalismo senza freni e della speculazione senza regole entrava alla Casa Bianca. Intorno a lui era un Paese coperto d’ipoteche e con 14 milioni di disoccupati: l’eredità tragica di un’ormai lontana settimana nera di Wall Street.